UFC e lo sviluppo delle MMA sono di sicuro uno dei fenomeni sportivi più interessanti degli ultimi due decenni.
Partite da sport di nicchia con una cattiva reputazione e relegate nelle retrovie dei palinsesti, le MMA, grazie alla straordinaria abilità manageriale dei loro padri fondatori, si trovano oggi ad essere un vero e proprio fenomeno di massa.
Le ragioni dell’incredibile successo sono molteplici e difficili da elencare tutte, ma, tra queste, sicuramente è possibile individuare quella di agire in un contesto normativo “favorevole”. Il vantaggio e il rischio di essere dei pionieri (e questo in qualsiasi attività) è appunto quello di esplorare per primi l’inesplorato. Traducendo tutto questo nell’ambito del diritto vuol dire posizionarsi in una zona normativa grigia e poter sfruttare a proprio vantaggio la mancata applicazione di normative previste per altri operatori potenzialmente concorrenti.
La boxe e l’Ali Act
Tra questi, ad esempio, possiamo annoverare la boxe. Fenomeno sportivo con una tradizione più antica rispetto alle MMA e per questo più rigidamente regolata.
La fonte principale (in ambito legislativo americano) da prendere come riferimento in questo senso è l’Ali Act (per esteso Muhammad Ali Boxing Reform Act).
Introdotto nel 2000 principalmente per
- tutelare i diritti e il benessere dei pugili impedendo alcune pratiche commerciali coercitive e immorali
- promuovere l’integrità dello sport e del settore,
Negli anni, seppur lungi dall’ottenere risultati ultra-soddisfacenti, ha favorito lo sviluppo di una maggiore trasparenza e imparzialità all’interno del mercato pugilistico a stelle e strisce.
L’Ali Act, le MMA e la UFC
Le premesse dell’Ali Act rintracciano come motivazione fondamentale di una disciplina a livello statale per la boxe, ma questo sport è privo di un’entità (Federazione o simile) imparziale che abbia l’autorità di fissare standard commerciali ed etici soddisfacenti.
In questo senso le MMA presentano un quadro ancora più frammentato e Dana White lo sa fin troppo bene. Il colosso nordamericano, infatti, in questo vuoto normativo si è imposto come “monopolista” nel mercato, diventando col tempo sinonimo stesso dello sport e facendo il bello e il cattivo tempo.
UFC, infatti, è una società privata e all’interno del proprio recinto regola ogni cosa: dai ranking alle linee guida contrattuali, custodendo gelosamente ricavi e dati finanziari.
Non è un caso che la proposta di estensione arrivi proprio da un ex fighter: il repubblicano membro del congresso Markwayne Mullin.
La posta in gioco è alta: un’estensione applicativa dell’Ali Act, infatti, vorrebbe dire tentare di sradicare politiche contrattuali basate sul concetto di “prendere o lasciare” portate avanti dalla UFC e costringere il colosso a una maggiore trasparenza sui propri ricavi.
Questo punto in particolare è una bomba ad orologeria: con le crescenti preoccupazioni circa i rischi mentali e fisici delle MMA e la messa a conoscenza dei propri atleti del reale impatto finanziario delle loro performance nell’ottagono, il rischio è quello di far drizzare le orecchie di molti atleti e manager pronti a bussare alla porta di Dana White per reclamare una fetta del suo impero.
La strada sembra ancora molto lunga e tortuosa, ma con l’uscita di scena di Donald Trump (vero e proprio hooligan e angelo protettore della UFC) i tempi potrebbero accorciarsi.